Il Paradosso della Parola: Scrivere di Spiritualità e il Trionfo della Connessione Umana


 

Di Fulvio Schiavone


Il Paradosso della Parola: Scrivere di Spiritualità e il Trionfo della Connessione Umana


Scrivere o parlare di spiritualità rappresenta sempre un rischio, un cammino su un confine sottile dove la parola diventa tanto uno strumento quanto un ostacolo. Quando l’essere umano tenta di descrivere una realtà interiore, qualcosa che nasce dall’esperienza diretta dello spirito, si trova inevitabilmente a dover tradurre ciò che non è traducibile. Ogni parola che scegliamo diventa una mappa, ma mai il territorio; un riflesso, ma mai la luce stessa. Si genera così quello che potremmo chiamare il difetto della comunicazione: la distanza tra l’esperienza interiore e la sua rappresentazione linguistica. Nel momento stesso in cui nomino qualcosa di spirituale, lo incornicio in un concetto, in una forma mentale che appartiene già al mondo del pensiero, e quindi alla matrix dell’umanità. Quando ad esempio parlo di un “programma” o di una “matrice”, creo nella mente di chi ascolta due forme simboliche, due immagini concettuali che non coincidono mai con l’esperienza viva e diretta di ciò che intendo. Esse diventano pattern, strutture mentali che si fissano nel linguaggio e nelle emozioni personali, prendendo vita autonoma, come entità concettuali che separano dalla sorgente originaria dell’esperienza. È così che le parole, pur volendo unire, finiscono talvolta per separare, per deviare dal cuore dell’esperienza spirituale che si vorrebbe condividere.

Ogni parola che pronunciamo è come un qualia, un frammento percettivo interiore che porta con sé tutto il peso della nostra storia, delle emozioni e delle esperienze vissute. Quando dico “luce”, la mia luce non sarà mai la tua, perché dietro questa parola c’è la mia vita, la mia memoria, la mia visione del mondo. Allo stesso modo, il tuo ascolto sarà filtrato dai tuoi significati, dai tuoi simboli interiori, dalle associazioni che la tua coscienza ha costruito nel tempo. Questo fa sì che ogni atto di comunicazione spirituale sia inevitabilmente un incontro fra mondi diversi che cercano un punto di contatto, una risonanza comune. È come se le parole fossero ponti di luce sospesi fra due sponde, ma ognuno li attraversa con il proprio passo e con il proprio ritmo.

Eppure, proprio in questa fragilità, risiede la bellezza della comunicazione umana. La consapevolezza che ogni parola sia imperfetta non deve scoraggiarci dal parlare, ma spingerci a comunicare con più presenza, con più compassione, con più ascolto. È vero che ogni parola crea un’illusione, ma è anche vero che senza parole non potremmo costruire alcuna connessione, non potremmo riconoscerci, non potremmo condividere la nostra umanità. Il silenzio totale, sebbene spiritualmente puro, rischia di trasformarsi in isolamento. L’uomo, per sua natura, ha bisogno di esprimersi e di essere compreso, perché nella comunicazione si riflette la nostra stessa essenza relazionale. Anche quando le parole non riescono a cogliere il senso ultimo delle cose, rimane comunque il desiderio profondo di unirsi, di riconoscersi, di trasmettere un frammento del proprio sentire all’altro.

La filosofia zen ci mostra, in modo sottile e poetico, questo stesso paradosso. Gli insegnamenti zen spesso invitano al silenzio, all’intuizione diretta, alla non-mente; eppure lo fanno attraverso parole, parabole e koan che usano proprio il linguaggio per oltrepassarlo. Il maestro zen parla per condurre il discepolo oltre le parole, non per fermarlo in esse. Così anche noi, quando tentiamo di parlare di spiritualità, dobbiamo ricordarci che le parole non servono a definire l’esperienza, ma a indicarla, come un dito che punta la luna. Non è il dito la luna, ma senza il dito molti non saprebbero dove guardare.

Dunque, scrivere di spiritualità non è un errore, ma un atto di amore e di fiducia. È l’intenzione di condividere, pur sapendo che ogni espressione sarà imperfetta. È la volontà di mettere in circolo la vibrazione di ciò che si è compreso, accettando che essa venga interpretata, deformata, trasformata da chi ascolta, ma anche arricchita e resa viva in modi nuovi e imprevedibili. Le parole sono semi: possono germogliare in forme diverse da quelle che avevamo immaginato, ma non per questo perdono valore.

Alla fine, la vera comunicazione spirituale non consiste nel trasmettere un concetto esatto, ma nel creare un campo di risonanza. Quando parliamo con sincerità, senza voler convincere ma solo condividere, l’altro percepisce la vibrazione del nostro essere al di là delle parole. È lì che la comunicazione torna ad essere autentica: non nel significato letterale, ma nell’energia che la sostiene. La parola, allora, diventa un veicolo, un ponte di coscienza che unisce due anime che si riconoscono come parte dello stesso flusso.

Ecco perché non bisogna temere il fraintendimento né cadere nel mutismo spirituale. È meglio essere fraintesi che tacere del tutto, perché il silenzio dell’isolamento non fa crescere né chi parla né chi ascolta. L’umanità vive attraverso il dialogo, e nel dialogo si evolve. Anche quando le parole falliscono, rimane l’intenzione che le muove, e quella è pura, quella è spirito. Parliamo allora, sempre, con il cuore, sapendo che ogni parola è solo un’ombra della verità, ma che è proprio attraverso quelle ombre che impariamo a riconoscere la luce.

Evviva la comunicazione fra persone, fra esseri umani e non, perché è nel tentativo di condivisione che risiede la nostra profonda umanità e la nostra interconnessione più vera.

Commenti

  1. Molto profondo, lo condivido, le parole hanno un grande potere ed è pur vero, che per quanto ci si possa sforzare di spiegare ciò che si prova interiormente, non vi è mai parola adeguata in nessuna lingua😍 GRAZIE di cuore 🌈😘

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  2. È bello quando due anime risuonano nella stessa melodia. Ciao Fulvio. Sara

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