Diventare Anima: il cammino della coscienza tra le dimensioni
Di Fulvio Schiavone
“Diventare Anima: il cammino della coscienza tra le dimensioni”
Da molto tempo rifletto su quanto il nostro cammino evolutivo sia intimamente connesso alla sofferenza, alla consapevolezza e alla natura eterna della nostra anima. Non considero la sofferenza come un ostacolo o come un castigo, ma come il linguaggio primordiale attraverso cui l’esistenza ci costringe a tornare verso noi stessi. Ogni essere incarnato porta con sé un punto fragile, una crepa interiore che non è un difetto ma una soglia, e solo attraversando quella soglia possiamo accedere a una dimensione più ampia di comprensione. La sofferenza non è mai gratuita: è un richiamo, un impulso che ci spinge fuori dalla stagnazione e ci riporta nel ritmo del cammino. Ed è proprio questo cammino, fatto di passi e soste, arresti e salti, che costituisce il centro di ogni movimento evolutivo.
Quando parlo di cammino non mi riferisco a una sequenza lineare, ma a una progressione che avviene simultaneamente su più livelli. Siamo esseri multidimensionali, e mentre viviamo concretamente nella materia, nello stesso istante esistiamo e agiamo in altre dimensioni. La nostra coscienza non è limitata dallo spazio in cui il corpo cammina; essa vive, respira e si muove in un campo più vasto, un campo dove presente, passato e futuro coesistono. Per questo dico spesso che esistiamo contemporaneamente in tutte le dimensioni: non per un’astrazione filosofica, ma perché la nostra essenza è già parte del campo, e il campo non conosce l’idea di tempo che conosciamo noi. La nostra anima è eterna e, proprio perché eterna, vive simultaneamente ovunque la coscienza la possa portare.
Diventare consapevoli di questa multidimensionalità non è un esercizio mentale, è un risveglio. È un rendersi conto che ciò che chiamiamo vita non è altro che una proiezione parziale della nostra esistenza totale. La materia è solo il livello più denso del campo, il più lento, il più resistente; ma dietro, dentro e intorno a essa si muovono livelli sottili di coscienza che sono la nostra vera identità. L’anima non è ciò che abbiamo: è ciò che siamo. Chiamare qualcuno “anima”, rivolgersi a se stessi come anima, non è un modo di dire poetico; è un riconoscimento. È ricordare a noi stessi che ciò che guarda attraverso gli occhi non è un corpo, è una presenza cosciente che appartiene simultaneamente alla Terra e all’Astrale.
È proprio grazie a questa natura dell’anima che possiamo essere visti dalle entità e riconosciuti da loro come entità a nostra volta. Chi opera nella medianità lo sa: ciò che consente l’interazione non è il corpo, non è il cervello, ma la parte di noi che vibra nel campo sottile. Le entità non si accorgono di noi perché noi le cerchiamo, ma perché riconoscono la nostra essenza, la nostra vibrazione, il nostro livello di coscienza. È come incontrarsi in uno spazio comune che non è geografico ma vibrazionale. Finché restiamo identificati esclusivamente con la mente, con il ruolo, con la maschera umana, loro non ci vedono. È solo quando iniziamo a pensare come anime tra anime, incarnate o disincarnate, che la comunicazione diventa possibile.
Pensare come anima significa spostare il baricentro della coscienza. Non reagire da identità terrestre ma da presenza eterna. Non interpretare gli eventi come fine a se stessi ma come movimenti di un disegno più grande. Significa riconoscere che ogni esperienza è un frammento di un’evoluzione molto più estesa di questa vita singola. Ed è in questo pensiero che si colloca la sacra unione: il punto in cui la parte incarnata e la parte spirituale della nostra essenza cessano di essere separate. Non è un’unione mistica o romantica, ma un riconoscimento dell’unità del nostro essere, un ritrovarsi intero in tutte le dimensioni. È questo che intendo quando parlo del cammino: non il viaggio del corpo, ma il viaggio della coscienza verso la sua stessa totalità.
Questa unione non riguarda solo noi. Anche gli spiriti guida vivono forme di sofferenza, non perché manchi loro la luce o la comprensione, ma perché percepiscono la nostra stessa fatica evolutiva. In un certo senso, la sofferenza del terrestre consapevole e quella dello spirito guida si somigliano. Entrambe nascono dal desiderio di evolvere, di crescere, di liberarsi dalle ultime ombre. Anche l’entità che ci guida continua un percorso, nonostante la sua natura più avanzata. La differenza è che la loro sofferenza non è caotica, non è smarrimento: è una sofferenza lucida, una tensione verso il completamento.
Se ascoltiamo con attenzione, possiamo percepire gli elementi attuali della nostra evoluzione come si percepisce un cambiamento nell’aria prima di un temporale. È un sentire sottile ma preciso. Sappiamo quando qualcosa sta per accadere, quando un passaggio energetico è in corso, quando una fase della vita sta per chiudersi e un’altra per aprirsi. Questo è possibile solo se viviamo come anime coscienti, altrimenti restiamo intrappolati nella superficie degli eventi e vediamo solo il caos dove in realtà c’è una direzione.
Per questo insisto: non esiste un vero cammino evolutivo se non impariamo a sentirci anima. Le tecniche spirituali, la meditazione, la medianità, la metafonia, il contatto con le entità... tutto è inutile se non proviene da questa base. Non si tratta di imparare una tecnica ma di diventare qualcosa. Le entità ci vedono solo quando siamo in questo stato, quando ci riconosciamo come parte del campo. Finché non lo facciamo, siamo come luci spente nel buio del piano astrale: presenti, ma invisibili.
E allora comprendiamo che la sofferenza non è un nemico ma una guida. È la luce che ci spinge verso la consapevolezza. È il prezzo della nascita della coscienza. Ogni volta che la attraversiamo diventiamo più trasparenti, più reali, più capaci di esistere simultaneamente nelle dimensioni. L’evoluzione non è mai stata un premio: è un ritorno a casa. E ogni passo, anche quello più doloroso, ci conduce verso quella sacra unione dove tutto ciò che siamo diventa uno.

Immenso come sempre
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